Vacciniamo il futuro

Quello che sta per concludersi verrà ricordato come uno degli anni più difficili e drammatici dai tempi del dopoguerra.

L’esplosione della pandemia dovuta al Covid19 ha letteralmente sbattuto in faccia ad ognuno di noi, una serie di difficoltà, complicazioni, sia sul piano individuale e collettivo, con cui dovremo necessariamente avere a che fare ancora per molto tempo.

A chi ci avesse prospettato, solo un anno fa, che la diffusione di questo virus sconosciuto avrebbe provocato la morte, per cause dirette o indirette poco conta, di circa un milione e ottocentomila persone, e che per la facilità della sua trasmissione, circa ottanta milioni di individui risultino ad oggi contagiati probabilmente avremmo risposto che era un’ottima trama per un romanzo di fantascienza.

Invece, purtroppo, la realtà covidizzata è ormai un dato di fatto: da mesi è normale alle sette della sera apprendere, con quel cinismo imposto nei tempi di crisi, il numero di morti che quotidianamente soccombono alla battaglia nelle terapie intensive. Da mesi le nostre abitudini quotidiane sono state stravolte sostituite da nuove, che vengono compiute meccanicamente in funzione della minimizzazione dei rischi: indossiamo la mascherina, igienizziamo le mani praticamente ogni minuto, rispettiamo il distanziamento sociale guardando con sospetto chi ci si avvicina troppo.

Abbiamo smesso di stringerci la mano, di abbracciarci, anche quando avremmo bisogno o desiderio di farlo, per conforto o semplicemente per manifestare i nostri sentimenti. La diffidenza, già molto diffusa in una società sempre più individualizzata, è ancor più praticata.

Il mondo come lo conoscevamo, o forse come ci illudevamo di conoscere, probabilmente non esisterà più: ciò che sembrava controllato e controllabile in realtà ci sfugge di mano, o forse aveva già iniziato a farlo e non  ce ne eravamo resi conto. Anni di suggestioni  propagandistiche del culto della vittoria e del successo ad ogni costo hanno nascosto debolezze e fragilità che, all’improvviso, stanno presentando il conto in modo brutale. Ogni dimensione della vita di ognuno di noi, personale e sociale, è stata condizionata da un’illusione che questa pandemia ha fatto svanire al punto tale che, per dirla come Mark Fischer in “Realismo Capitalista”, accanto alla sostenibilità ambientale del modello di sviluppo si sta prepotentemente ponendo la questione della sua sostenibilità umana.

Il Covid ha squarciato il velo su quel che resta di quelli che Jean Fourastié definì i trenta gloriosi”, battezzando gli anni di crescita economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale, mostrando un capitalismo che non è riuscito ad essere inclusivo, ma anzi ha accresciuto drasticamente le differenze tra chi sta bene e chi fatica per non essere espulso dal sistema. Un capitalismo principalmente finanziario, con benefici molto alti e molto veloci per azionisti e manager, con retribuzioni e premi altissimi per i vertici delle imprese e bassi, molto bassi per chi non è accettato nelle élite. Un modello sociale ed economico, con buona pace di Francis Fukuyama che nel 1989 ne “La fine della storia” aveva  teorizzato che il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe posto fine a disuguaglianze e disparità escludenti alla fine del XX secolo, è invece sempre più spietatamente definito dalle variabili del profitto e del guadagno.

Solo ripensando il modello di sviluppo, ricostruendo connessioni collettive, che non siano semplicisticamente riconducibili a piattaforme social, che ponga in essere tutte quelle misure dirette alla valorizzazione dei meriti contestualmente al contenimento dei bisogni, scelte e condotte che da anni avrebbero dovuto essere state messe in atto, sarà possibile costruire il nuovo mondo.

Un modello che rimetta al centro la valorizzazione del capitaleumano, che ridefinisca la sfera di diritti e tutele pubbliche, come il diritto alla salute e all’istruzione, che rimoduli una cultura del lavoro arginando le tendenze a contrapposizioni dal sapore corporativistico: garantito contro precario, lavoratore dipendente contro professionista. Un sistema che azioni finalmente quel cosiddetto  ascensore sociale, rimpiazzato finora nemmeno da una scala antincendio, che ridefinisca la cultura dei diritti ma anche quella dei doveri, che non mortifichi i talenti, la creatività, le energie individuali e imprenditoriali, ma al contrario le valorizzi per risolvere i problemi di tutti.

Il contesto in cui operiamo, quello della Previdenza Privatizzata, non è e non sarà avulso da questa analisi, anzi.

Elementi come la funzione svolta dagli Enti, non più di semplice erogazione di trattamenti pensionistici o assistenziali, la ricaduta della contrazione dell’accesso alle professioni, senza contare il calo demografico amplificato dalle conseguenze del Covid, determinano l’esigenza di una riflessione articolata e approfondita. Che si faccia carico di immaginare nuove strategie e nuovi sviluppi, con un respiro più ampio di quello che può fornire una politica sussidiaria.

Il prossimo anno, che tutti speriamo meno difficile, non ci faremo trovare impreparati.

Un anno che ci vedrà, tra l’altro, in prima linea per definire il nuovo CCNL delle lavoratrici e dei lavoratori delle Casse previdenziali. Contratto che per quanto ci riguarda non può essere concepito solo come strumento delegato a regolamentare i rapporti di lavoro in essere, ma come volano di unione e consolidamento di un Comparto, quello della Previdenza Privatizzata, che negli anni a venire sarà vitale per il Sistema Italia.

Buon anno, e buona fortuna, a ognuno di noi.

Andrea Ladogana​​​​​​​​​

Pierluigi Sernaglia