Quando il salario diventa cittadinanza: il potere d’acquisto come misura della libertà democratica.

Da troppo tempo abbiamo imparato a leggere l’andamento dei salari e degli stipendi attraverso grafici, indici e percentuali. Ma c’è un dato che, più di altri, oggi rivela la condizione reale delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, il potere d’acquisto non è soltanto una misura economica, bensì il nuovo parametro della cittadinanza democratica. È nel reddito reale, ciò che il salario permette di comprare, vivere e progettare, che si decide se una persona può partecipare pienamente alla vita sociale oppure se ne resta ai margini. I dati più recenti confermano un quadro che non possiamo più considerare emergenziale, Italia e Grecia sono gli unici Paesi dell’Unione Europea in cui i redditi reali delle famiglie risultano inferiori a quelli di vent’anni fa. Non si tratta di una parentesi congiunturale, ma di una condizione strutturale che accompagna l’evoluzione economica del Paese da due decenni e che oggi diventa la lente attraverso cui osservare l’erosione dei diritti, la stagnazione delle opportunità e la crescente fragilità delle lavoratrici e dei lavoratori. In altre parole, se il potere d’acquisto scende, non è soltanto la qualità della vita a peggiorare: è l’intero patto sociale che si sgretola.

La questione di stipendi e salari non riguarda solo la dimensione economica. Il problema, sempre più evidente, è culturale e antropologico. Viviamo in un contesto in cui il lavoro tende a occupare ogni spazio dell’esistenza. Anticipa la formazione perché ne orienta le scelte prima ancora che esse inizino a prendere forma: i percorsi scolastici e universitari vengono modellati sulle richieste del mercato, più che sulle inclinazioni personali o sul progetto culturale di chi studia. La formazione, anziché essere un luogo di crescita libera e critica, viene progressivamente ridotta a un pre-lavoro, a un processo finalizzato soprattutto a rendere immediatamente utili e produttive le competenze. Il lavoro modella anche le relazioni quotidiane, che finiscono per adattarsi ai suoi tempi e alle sue urgenze. Gli orari, le scadenze, la pressione costante della prestazione plasmano il modo in cui ci si incontra, ci si ascolta, si mantiene un legame. La vita affettiva e familiare viene compressa nei ritagli di tempo, e la qualità delle relazioni risente del fatto che l’energia mentale ed emotiva è spesso assorbita dal la dimensione professionale. Così il valore delle persone viene misurato sempre più attraverso la produttività, e sempre meno attraverso la capacità di costruire rapporti umani solidi e gratuiti. Il lavoro condiziona infine i tempi della cura e del riposo, insinuandosi in ambiti che dovrebbero esserne protetti. Il tempo dedicato alla salute, ai figli, agli anziani, alla semplice attenzione verso sé stessi viene spesso percepito come sottratto agli obblighi lavorativi. Anche il riposo perde la sua funzione originaria di rigenerazione: diventa un intervallo da ottimizzare o da incastrare fra una scadenza e l’altra. La stanchezza diventa cronica, e persino le ferie, che dovrebbero rappresentare una pausa autentica, vengono abitate da email, messaggi e richieste di disponibilità. La nostra identità sembra compressa in un’unica dimensione, quella del lavoratore, e tutto il resto viene subordinato: la creatività, il tempo libero, la cultura, la possibilità stessa di interrogarsi sul senso della propria vita. In uno scenario simile, vedere il salario perdere potere d’acquisto non significa semplicemente disporre di meno risorse economiche, ma comprendere che l’unico parametro su cui ci viene chiesto di misurarci, il lavoro, risulta paradossalmente insufficiente a garantire una vita dignitosa. Si affaccia così il rischio di una società in cui si lavora sempre di più per ottenere sempre meno, in cui la meritocrazia si rivela per ciò che è sempre stata, una promessa raccontata come orizzonte di giustizia, ma mai davvero destinata a realizzarsi, un racconto rassicurante che oggi lascia il posto alla consapevolezza di una menzogna che alimenta un senso di impotenza; una società che chiede alle persone di dedicare tutto al lavoro senza restituire sicurezza, prospettive ed equilibrio.

Questa declinazione si intreccia con un fenomeno globale altrettanto rilevante, la ricchezza si concentra in misura mai osservata prima nella storia contemporanea. Una porzione minuscola della popolazione mondiale controlla patrimoni capaci di influenzare interi sistemi economici, mentre la maggioranza fatica a mantenere livelli elementari di stabilità. È un’evoluzione squallida, che rivela la distorsione morale di un modello capace di celebrare il successo dei pochi, spesso effimero e del tutto frutto di speculazioni, ignorando la fatica, l’incertezza e la vulnerabilità dei molti. Le disuguaglianze non aumentano soltanto perché i più ricchi diventano sempre più ricchi, ma perché i meccanismi fiscali e redistributivi, quelli che dovrebbero assicurare equità e coesione sociale, vengono progressivamente indeboliti, se non del tutto annientati. In molti casi i grandi gruppi economici riescono a sottrarsi al finanziamento dei servizi pubblici trasferendo legalmente profitti in altre giurisdizioni. Così si erodono le basi materiali dell’educazione, della sanità, della previdenza, della giustizia: senza queste strutture, la cittadinanza si svuota e diventa un involucro formale. Nelle società dove il potere economico si concentra in poche mani, lavoratrici e lavoratori non perdono solo reddito, ma anche voce, capacità contrattuale e influenza sui processi democratici.

Dove la ricchezza si trasforma in potere assoluto, il lavoro tende a valere sempre meno.

Tutto questo ci costringe a rivedere il nostro concetto di cittadinanza. Non è sufficiente avere diritti riconosciuti sulla carta se mancano gli strumenti economici necessari per esercitarli. Il potere d’acquisto diventa il metro della partecipazione reale alla vita democratica perché determina l’accesso alla cultura, alla salute, al tempo libero e alla possibilità di costruire un futuro. Senza risorse adeguate, questi diritti rimangono teorici. Quando il reddito reale diminuisce, si restringe anche la sfera di libertà delle persone, e il salario torna a essere ciò che storicamente è sempre stato: un fattore di emancipazione oppure di esclusione.

In questo scenario i sindacati assumono una responsabilità storica. Non si tratta solo di difendere i livelli salariali, pur essendo questa una battaglia essenziale, ma di contribuire alla ricostruzione di un modello sociale che redistribuisca potere e risorse e che restituisca al lavoro un ruolo umano, non totalizzante. Occorre riportare al centro del dibattito pubblico l’idea che il salario non è una variabile secondaria, ma il primo strumento di cittadinanza economica, e che il tempo di vita merita tutela almeno quanto il tempo di lavoro. Se non verrà contrastata, la deriva attuale rischia di condurci verso una nuova forma di feudalesimo, in cui pochi detengono ricchezze e certezze, mentre molti vivono in una precarietà permanente, privati della possibilità di autodeterminarsi. Evitare questo scenario richiede politiche fiscali eque, investimenti nei servizi pubblici, contrattazione inclusiva e una nuova visione del lavoro come parte della vita e non come suo totalizzante padrone. Difendere il potere d’acquisto non significa chiedere “qualcosa in più” per i lavoratori: significa sostenere l’idea stessa di cittadinanza e credere in una società in cui non sia la ricchezza ereditaria a stabilire chi può vivere bene, ma la dignità garantita a ogni persona attraverso il lavoro.

Arturo Bandini