Fisco, da scure dei redditi a mezzo strumentale per la redistribuzione: l’opportunità offerta dalla lotta ai paradisi fiscali e dalla web tax nel solco dell’agenda Biden

di Marco Vipsanio

Lo sviluppo globale del commercio elettronico e dei servizi digitali ha tracciato negli ultimi 10 anni il solco di un cambiamento nelle abitudini dei consumatori che, con l’avvento della pandemia da Covid-19, difficilmente sarà reversibile: nel 2020, anno dei profitti record per le aziende del digitale, in Europa Amazon è passato da 981 milioni di utili a oltre 2,2 miliardi di euro (+124%), circa il 12% dei profitti realizzati a livello globale (MF-Milano Finanza).

Partendo da questo input, negli ultimi anni gli sforzi dei legislatori e dell’OCSE si sono concentrati nel definire regole di tassazione per i servizi digitali transfrontalieri inseguendo con strumenti classici uno sviluppo tecnologico e dei mercati che ha molto repentinamente spostato l’ago della bilancia commerciale verso un limbo chiamato “rete”. In questo contesto, gli sforzi profusi nell’implementazione di meccanismi quali la web tax hanno restituito scarsi risultati evidenziando un’inadeguatezza della risposta della politica a problemi tecnicamente molto complessi e politicamente spinosi per via dei diktat delle multinazionali nonché la ferma opposizione dell’amministrazione Trump – quest’ultimo sempre impegnato nella sostanziale battaglia del rientro dei capitali anche in accompagnamento a politiche interne di riduzione del livello impositivo.

La ruota elettorale però gira e l’amministrazione Biden, pur condividendo lo scetticismo in merito ad una web tax – sia chiaro, sempre per motivi di opportunità nazionale essendo i principali colossi in questo ambito statunitensi -, sembra invece voler combattere una battaglia forse altrettanto difficile: quella del contenimento dell’erosione della base imponibile, anche attraverso strumenti che possano osteggiare il noto fenomeno del dumping fiscale.

L’agenda di Biden, infatti, sembra essere più attenta ad un aspetto non propriamente marginale del sistema economico vigente: l’economia capitalista si fonda su meccanismi di concorrenza e competizione, ma la derivazione opportunistica della crescita a discapito degli altri Paesi che compongono lo stesso sistema economico può portare a pesanti distorsioni e fallimenti generalizzati. In altri termini, se la crescita economica non abbraccia tutta la sfera occidentale, il solo mercato interno USA non gli basterà per far fronte alle imponenti sfide che provengono dall’oriente e dai mercati emergenti. Questa “intuizione” ha portato l’amministrazione Biden a cambiare atteggiamento anche nei confronti dei Paesi storicamente nella sfera d’influenza statunitense, proponendo uno strumento di lotta ai paradisi fiscali che riporti il carico fiscale a livelli minimi di equità rispetto agli altri comparti soggetti a tassazione.

I numeri del dumping fiscale per l’Italia? Tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari di gettito l’anno, parola di Roberto Rustichelli, presidente dell’Antitrust.  “Alcune ricerche stimano che, a causa della concorrenza fiscale sleale a livello europeo, il fisco italiano perde la possibilità di tassare oltre 23 miliardi di dollari di profitti: 11 miliardi di profitti vengono spostati in Lussemburgo, oltre 6 miliardi in Irlanda, 3,5 miliardi in Olanda e più di 2 miliardi in Belgio”, ha spiegato Rustichelli a Milano Finanza nel luglio 2020.

La Global minimum tax (aliquota fiscale minima globale) è uno strumento che si applicherebbe ai profitti conseguiti dalle società all’estero. Pertanto, se le aziende fiscalmente domiciliate in Italia pagassero aliquote più basse per i profitti realizzati in un determinato Paese estero, il Governo potrebbero “aggiungere” all’aliquota già corrisposta l’importo derivante dall’aliquota minima concordata, eliminando il vantaggio di spostare i profitti in un paradiso fiscale. Questo modello impositivo si inserisce peraltro nel solco di un fiorente dibattito in ambito fiscale, anche legato a temi ambientali, che sta portando la Commissione Europea nell’introdurre una border carbon tax per limitare altri aspetti distorsivi dei FDI (Foreign Direct Investments) quali il carbon leakage, ovvero la delocalizzazione dei siti produttivi legata ai costi del carbonio derivanti dalle politiche ambientali comunitarie.

Tornando all’aliquota fiscale minima, nei mesi scorsi i governi hanno già ampiamente concordato sul disegno di base della tassa minima, sebbene rimanga in piedi il tema più spinoso, ovvero la definizione dell’aliquota stessa. Rimangono poi da negoziare altri elementi, quali la possibile inclusione dei fondi di investimento in questo meccanismo, una data di partenza per la nuova aliquota e come allineare le proprie tassazioni interne con questa nuova finalità.

L’aumento di gettito stimato? Tra i 50 e gli 80 miliardi di dollari a livello globale, 8-10 miliardi per l’Italia (stima Icrit – Independent commission for the reform of international corporate taxation) da recuperare da multinazionali quali Eni, Enel, Intesa, Armani, Ferrari, Telecom Italia, Generali ecc. La contropartita verso gli USA? Rinunciare alla web tax che ha innescato solidi malumori e ipotesi di gettito molto meno consistenti (circa 590 milioni di euro).

Un utilizzo di queste nuove risorse potrebbe senz’altro essere la remunerazione degli oneri sociali, abbassandone la quota in capo ai datori di lavoro e sterilizzando almeno in parte gli effetti distorsivi generati dalle imposte sul lavoro. Il recupero di tali importi pertanto potrebbe (e dovrebbe) essere strumento di rilancio occupazionale in un momento in cui l’Italia si piazza ai primi posti nella graduatoria del cuneo fiscale (48 % nel 2018, media OCSE 36 %). Tale aspetto è chiaramente è già chiaramente attenzionato dal Governo, non ultimo l’intervento in Legge di Bilancio 2021, ma occorrono molte più risorse per rilanciare l’occupazione agendo sul costo del lavoro.

Inoltre, lo spiraglio aperto dalla collaborazione internazionale e l’abbattimento della barriera ideologica sull’introduzione di presidi fiscali comuni e globali potrebbe (e dovrebbe) portare l’Unione Europea a definire limiti meno stringenti per l’armonizzazione e il coordinamento in materia di fiscalità, tendendo finalmente ad una politica fiscale comunitaria.

Un’ulteriore riflessione, e ipotesi di utilizzo di gettito, riguarda l’auspicata riforma della tassazione dei redditi da lavoro dipendente. La Costituzione determina che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”: questo principio perde di efficacia quando un sistema di aliquote – poche e per fasce troppo ampie – viene accompagnato da schemi di detrazione discontinui, tanto che per aumentare il reddito netto talvolta risulta conveniente ridurre quello imponibile (paradosso dell’aliquota marginale effettiva).

È, infine, quanto mai urgente ridisegnare il fisco per passare da un’ottica di “tassazione delle persone” a una di “tassazione delle cose” (principio espresso nel PNRR), ma i costi di questo cambio di mentalità non sono trascurabili.

DI fronte alla grande necessità di riordino di cui necessita il nostro fisco, possiamo realmente permetterci, ancora oggi e nel pieno di una crisi che avrà strascichi per decenni, di rinunciare a risorse che arricchiscono i pochi continuando ad impoverire i molti?